‘Cercasi schiavo’: viaggio tra i lavori stagionali della costa molisana

L’estate è da poco finita. Per molti, da un punto di vista economico, il bilancio è stato in negativo. Noi abbiamo scelto di guardare con una mini-inchiesta al turismo dal punto di vista dell’ultimo anello della catena del settore. In una regione in cui la disoccupazione giovanile è al 44% il lavoro stagionale è un’opportunità per tanti,  ma anche un settore che nasconde sfruttamento e precarietà. Ma anziché organizzarsi per ottenere condizioni migliori, spesso si afferma la guerra tra poveri.

da l’anguilla di settembre (scaricalo gratis qui)

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Si sa, la crisi è dura, e il clima di questa estate di certo non ha aiutato a risollevare le sorti dell’economia bassomolisana legata al turismo estivo. Ma anche la crisi non è uguale per tutti, e se balneatori, ristoratori e albergatori lamentano per questa stagione un calo di profitti, è andata ancora peggio ai tanti ragazzi e ragazze impiegate nel settore come camerieri/e, lavapiatti, barman, aiuto-cuoco, ecc. Come tanti altri giovani e meno giovani bassomolisani, anche per me ogni anno la stagione estiva è il momento atteso per trovare un lavoretto di almeno due mesi. Per tanti il lavoro stagionale sulla costa significa un’entrata utile a guadagnarsi un po’ di indipendenza economica dalla famiglia, e mettere qualche soldo da parte per realizzare un piccolo sogno. Per alcuni è un modo per potersi garantire di proseguire gli studi, mantenersi in affitto. Per altri è una necessità ‘vitale’, perché magari è l’unico lavoro possibile in una regione in cui secondo gli ultimi dati i poveri sono ormai il 10% e tra i giovani la disoccupazione è al 43,8%. In questo senso si direbbe che è una fortuna vivere in una zona turistica: altri lavori stagionali (come in agricoltura) sono probabilmente molto più faticosi e peggio pagati. Ma anche il lavoro nell’industria turistica (bar, ristoranti, alberghi, lidi balneari) nasconde una vasta galassia di sfruttamento, paghe misere, orari estenuanti e assenza di diritti. È giusto premettere che non tutti i datori di lavoro sono uguali, e che in alcuni contesti l’ambiente lavorativo è umano e cordiale, e i rapporti e il trattamento del lavoratore sono rispettosi della sua dignità. Ma questa, che dovrebbe essere la norma, si rivela essere purtroppo un’eccezione. E resta comunque il fatto che la parte debole è e rimane il lavoratore, che spesso purtroppo non sa di avere molti diritti, o rinuncia a rivendicarli. Prendiamo il lavoro da cameriere). Inutile dire che la stragrande maggioranza dei camerieri lavora in nero: i controlli sono quasi assenti e comunque ogni cameriere è ben addestrato a rispondere alle domande degli ispettori per evitare multe ai datori di lavoro. Il lavoro in nero significa assenza totale di tutele: non esiste malattia, giorno libero, o gravidanza che tenga. Un’altra opzione per i padroni è quella di assumere regolarmente il lavoratore o la lavoratrice, ma poi comportarsi come se quel contratto non esistesse. Spesso si viene assunti per un orario nettamente inferiore a quello effettivo, o con un contratto di apprendistato: se sul contratto si parla di quattro ore al giorno, normalmente per un ristorante, bar, o locale il lavoro va dalle cinque, le sei di pomeriggio alle tre o anche le quattro di notte (in media dieci ore, ma a volte anche di più). In questo modo una parte dello stipendio viene pagato ‘fuori busta’: uno stratagemma apparentemente innocuo, ma di fatto lo scherzetto costa caro al lavoratore, che percepisce molti meno contributi di quelli a cui avrebbe diritto. Inoltre il lavoratore ha diritto ad una maggiorazione del 25% per cento per il lavoro nelle ore notturne (spesso una parte consistente del lavoro estivo). Da contratto nazionale (per cameriere di quinto livello), il totale di lavoro non dovrebbe superare le 40 ore settimanali. Le ore lavorate in più vanno considerate straordinari, non devono comunque mai superare le 48 ore settimanali, e devono essere pagate con una maggiorazione del 30% se svolte in orario diurno, o del 60% se svolte in orario notturno. Considerando anche che per lo più il giorno di riposo non esiste, parliamo di una media di 70 ore a settimana, ben più degli straordinari permessi per legge. Lavorando in nero a Termoli (in un ristorante, bar, pub, lido), le paghe migliori si aggirano sui trentacinque euro al giorno, il che significa mediamente 3,50 euro all’ora, senza contribuzione (ma i peggiori sono fermi ai 20-25 euro, cioè a meno di tre euro/ora). Insomma, a conti fatti, si lavora tra le dieci e le venti ore in più a settimana, e si guadagna 100-200 euro in meno al mese di straordinari e ore notturne non pagati regolarmente. E guai a lamentarti o rivendicare orari più umani, giorno di riposo, e una paga decente: lavorare in nero significa anche essere sotto ricatto: ogni giorno il padrone può dirti “Da domani non venire più”, e con la fame di lavoro che c’è in giro, per uno che rinuncia ce ne sono altri dieci in fila dietro alla porta pronti ad accettare condizioni di lavoro peggiori. È la guerra tra poveri, che è evidente soprattutto quando si tratta di stranieri, disposti spesso ad accettare orari più pesanti e paghe inferiori, soprattutto nelle mansioni più umili e meno qualificate. Difficile pensare di organizzarsi tra lavoratori e lottare insieme per condizioni migliori. Poche le vertenze legali, mai esistite azioni di protesta collettiva. Nel lavoro stagionale di per sé il legame tra lavoratori non sempre riesce a consolidarsi. In più, si tratta sempre di piccole e medie aziende con pochi dipendenti. Spesso, per gli stessi lavoratori si tratta di una condizione che si è disposti a sopportare: non vale la pena ‘fare questioni’ per un lavoro che comunque presto finirà. Anzi, per chi si lamenta o protesta, oltre al rischio immediato di perdere il lavoro, c’è anche il fatto che poi potrebbe diventare difficile trovare lavoro anche in altre attività simili: si sa, il paese è piccolo, e la gente mormora. Il primo impulso a reagire deve venire da chi vive queste situazioni, ma sarebbe bene predisporre uno sportello per i lavoratori e le lavoratrici stagionali dove si possa rivolgere chi vuole conoscere i propri diritti, avere informazioni su contratto, salari, richieste di disoccupazione, vertenze sindacali, ecc. Un’esperienza di sportello attivata in riviera romagnola ha portato alla luce gravi episodi di abusi e sfruttamento, e persino di violenze fisiche e psicologiche subite in lidi balneari, alberghi e cucine di ristoranti. In mancanza di interventi istituzionali mirati a capire e affrontare il problema, è compito nostro (di associazioni, sindacati, movimenti, comunità territoriali) offrire un supporto e un punto di riferimento a chi vuole capire come muoversi nel mondo dei lavori stagionali e, tra le ombre della movida estiva, accendere le luci dei diritti e della dignità.

di Francesco DL *collettivo i mazzemarille

(S)vendesi scuole: Salviamo l’ex-Nautico dalla speculazione e Termoli da una nuova colata di cemento

Il comune di Termoli intende vendere due scuole per costruire un nuovo mega-polo scolastico e lasciare l’area di viale Trieste in mano ai costruttori. Ma perché dismettere dei pezzi così preziosi di patrimonio anziché ridefinirne l’uso insieme agli abitanti dei quartieri e il mondo della scuola?

(dal numero di settembre de l’anguilla. Scaricalo gratis qui)

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Lo sapevate che il Comune di Termoli vuole vendere l’ex-Istituto Nautico e la scuola media Schweitzer? Ebbene sì, la decisione di ‘valorizzare’ gli edifici delle due scuole di viale Trieste, già pianificata dall’amministrazione dell’ex-sindaco di Brino, è stata recentemente confermata dall’attuale giunta, che intende quindi proseguire con il piano di dismissione di questi pezzi di patrimonio pubblico. L’idea è quella di vendere gli edifici delle due scuole, e con l’incasso ricavato costruire… nuove scuole!
Ma andiamo con ordine. Il piano dell’amministrazione è quello di costruire un nuovo mega-polo scolastico dove riunire tutte le scuole dell’infanzia, elementari e medie della città. E già qui un po’ di dubbi iniziano a sorgere: quanto senso ha concentrare tutte le scuole dell’obbligo in un unico plesso? Le scuole sono tradizionalmente un servizio essenziale per gli abitanti di un quartiere, che favorisce genitori e studenti, permettendo ai primi di lasciar tranquillamente andare i figli a piedi, e ai secondi di intrecciare relazioni e di vivere più pienamente il quartiere in cui abitano. Immaginate invece cosa può essere un enorme edificio scolastico con migliaia di studenti dai 3 ai 13 anni, in termini di sviluppo sociale del bambino, di traffico automobilistico agli orari di entrata e di uscita, di concentrazione in classi-pollaio (visto che sarà automatico accorpare classi che non raggiungono il massimo di allievi), ecc.
Insomma, già il piano del mega-polo è molto discutibile. In più, per farlo il Comune ha bisogno di soldi, molti soldi, e allora che fa? Mette in vendita altre due scuole, una inagibile e abbandonata, l’altra ancora in utilizzo. I due edifici, che verranno molto probabilmente demoliti, sono vicinissimi alla stazione, dove il valore degli appartamenti è ormai paragonabile a quello di una casa in centro.
In particolare, la struttura dell’ex-Nautico ha un valore enorme per la città di Termoli. Eppure, dopo che il Comune ne ha definitivamente acquisito la proprietà nel 2009, non ha mai proceduto ad iniziare i lavori di ristrutturazione e messa in sicurezza che tutti si aspettavano.
Nel frattempo, anche molte delle attrezzature della scuola sono rimaste abbandonate nel vecchio edificio (compresi una fornitissima biblioteca, e un grande planetario che era/è una perla di quella scuola), e l’istituto (che nel 2013 ha compiuto 50 anni di storia) ha iniziato a perdere di prestigio, non potendo fornire agli studenti lo stesso livello e qualità di servizi. Ma perché per anni le diverse amministrazioni hanno lasciato all’abbandono un pezzo così importante e simbolico della storia della città? È quello che si chiedono anche tanti insegnanti ed ex-alunni della scuola (ci sono solo una quarantina di istituti nautici in tutta Italia), che l’hanno abbandonata nel 2009 sperando di ritornarci dopo qualche anno di lavori, e che invece oggi vengono a sapere che l’unico progetto è quello di costruire nuove palazzine al posto della vecchia struttura.
In pratica la città si priva di beni che sono comuni e di altissimo valore (non solo economico) per consegnarli ad una nuova colata di cemento e agli interessi di costruttori privati, quando invece questi potrebbero essere restaurati e ridestinati ad un uso pubblico e sociale. Anche se l’edificio non dovesse tornare ad essere necessariamente una scuola, si pensi a quanti servizi comunali oggi sono ospitati in strutture private, dove pagano affitti da migliaia di euro al mese (un esempio su tutti la biblioteca…) Non sarebbe già questo un ottimo motivo per considerare il restauro un investimento?
Città come Amsterdam, Bruxelles, ma la stessa Milano, dimostrano come il riuso di spazi abbandonati attraverso una progettazione partecipata da amministrazione, abitanti, associazioni, può diventare un’opportunità per rigenerare zone e quartieri, ma anche un motore di sviluppo e posti di lavoro.
Insomma, il problema di fondo è sempre lo stesso: la storia urbanistica di Termoli è piena di decisioni calate dall’alto ed imposte ai cittadini, senza una pianificazione. Ma l’unica strada percorribile è quella della partecipazione reale delle comunità locali attraverso processi democratici che di volta in volta possano intervenire a ridisegnare i quartieri e la città secondo i bisogni sociali ed una visione di lungo periodo e non legata ad interessi di pochi..

collettivo i mazzemarille

SONO (UN) FALLITO, MAMMA …

Due inviti: il primo è a ripensare il nostro sistema economico drogato e marcio, e a considerare la crisi come una possibilità, un’opportunità che apre ad un cambiamento creativo. Il secondo è a partecipare al seminario sul debito che si terrà il 6 settembre a Termoli, con Francesco Gesualdi, allievo di Lorenzo Milani, esperto di economia e precursore del consumo critico in Italia.

di Roberto De Lena (prossimamente in uscita sul numero di settembre de l’anguilla)

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Sono un ribelle, mamma … così cantavano gli Skiantos attraverso la voce del compianto e indimenticabile Freak Antoni. In quel testo, scritto nel 1987, riecheggia, ironicamente e con un certo sarcasmo, ormai solo l’eco di quel sentimento, la ribellione, praticato così diffusamente nel decennio precedente. Gli anni ’70, come sappiamo, furono infatti attraversati da pulsioni forti e radicali di cambiamento totale delle relazioni sociali, dei corpi politici e delle istituzioni a difesa dell’ordine costituito. Senza rinunciare all’ironia e alla creatività, ingredienti fondamentali per ogni ricetta che si proponga di invertire lo stato attuale delle cose, propongo di reinterpretare quel pezzo musicale all’insegna di un nuovo ritornello: sono un fallito, mamma … La mia tesi, infatti, è che superata la stagione delle lotte e consolidatasi l’era della società dello spettacolo, oggi ci troviamo a piè pari immersi nella società del fallimento.

Intanto, il nesso tra società dello spettacolo e società del fallimento non va letto come netto e lineare, ma come un nesso, un collegamento, appunto: assistiamo, cioè, ad una spettacolarizzazione quotidiana del fallimento stesso, della crisi, attraverso l’uso distorto, impaurente e mistificatorio che di essa ne fanno i media globalizzati. Quello che qui chiamo fallimento, lo si sarà inteso, è ciò che quotidianamente ci viene propinato sotto la categoria della crisi. A tal proposito, sarà utile sottolineare che il termine crisi (come ogni fenomeno umano, d’altronde) ha almeno due accezioni: può essere inteso come una rottura, un collasso traumatico, una caduta, ma porta al suo interno anche la dimensione della possibilità, dell’opportunità, del potenziale cambiamento creativo. Lo stesso dicasi del fallimento.

È lapalissiano, ognuno di noi è andato e andrà nel corso della sua vita incontro a fallimenti piccoli e grandi. Fallimenti di carattere affettivo e relazionale, determinati da una società che si fa sempre più globale, liquida e virtuale, nella quale la precarietà lavorativa e la precarietà esistenziale rappresentano due facce di una stessa, e talvolta drammatica, medaglia. Fallimento dei corpi di mediazione sociale, dai partiti politici ai sindacati fino al parlamento e alle sue istituzioni che, oggi più che mai, non rappresentano più nessuno né certo tutelano le categorie maggiormente vulnerabili. Fallimento di un sistema economico drogato e marcio fino al midollo, che provoca emarginazioni e disperazioni, rende invivibile il pianeta utilizzandolo come se fosse una mega-discarica, nel contempo costruendo paradisi artificiali per il piacere dei pochi (ap)profittatori di turno.

Diciamocelo pure, serenamente (come direbbe il non eletto presidente del consiglio): il fallimento è una buona categoria per interpretare lo spirito dei tempi attuali. Ma reinterpretare un ritornello, vuol dire assumersi la responsabilità di cambiare il significato dell’intera canzone. Credo, infatti, che, se desideriamo uscire dalla spirale perversa nella quale ci ritroviamo abbindolati, dobbiamo avviare una campagna di rivendicazione del fallimento; costringere i nostri rappresentanti a dichiarare default significherebbe aprire le possibilità per immaginare e praticare un nuovo modello di società, contro e oltre il capitalismo e le sue istituzioni. Il futuro è tutto da immaginare, la crisi può diventare anche un’opportunità.
È per discutere di questo, per approfondire la questione e sviscerarla nelle sue molteplici sfaccettature, che rivolgo un invito ai lettori: partecipare il 6 Settembre al seminario sul debito che si terrà a Termoli, con Francesco Gesualdi, presso i locali della chiesa del Sacro Cuore dalle ore 15 alle 19. È una rara occasione di formazione collettiva, finanche immeritatamente ospitata da una cittadina, la nostra, troppo spesso segnata da un panorama culturale, politico e sociale a tratti davvero desolante.

Io credo che quella sarà la giusta occasione per discutere sul come invertire la rotta della Concordia Europa, per esplorare ipotesi concrete di un altro esistente, per cominciare a riscrivere insieme il testo dell’intera canzone, con la stessa creatività ed il sorriso che contraddistinguono, ieri come oggi, i ribelli di ogni parte del mondo.

TTIP: un progetto (c)lassista

Roberto De Lena ci spiega in breve che cos’è il TTIP: il trattato segretissimo tra Unione Europea e Stati Uniti che svenderà alle multinazionali l’ambiente, i diritti sociali, e in definitiva le nostre vite.

Da l’anguilla di luglio-agosto.

Stop-TTIP-banner

Mi continua a venire in mente un’immagine da incubo ispirata da Edgar Allan Poe. Siamo tutti in una stanza con quattro pareti, un pavimento e un soffitto. Non ci sono finestre, né porte. La stanza è ammobiliata e qualcuno di noi sta seduto comodamente, altri no. I muri stanno gradualmente avanzando verso l’interno, a volte più lenti, a volte più veloci. Ci fanno sentire scomodi, vengono avanti di continuo, minacciano di schiacciarci a morte.1

È la stessa immagine che è tornata in mente a me dopo che, su invito del Bene Comune, ho provato ad approfondire la questione del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), il trattato di libero scambio e investimento tra USA e UE che dovrebbe entrare in vigore dal 2015.

Scrivo da una posizione relativamente comoda, ma seduto su di una sedia che traballa sempre più. Sento che le mura e le pareti della stanza potrebbero soffocarmi e, con difficoltà, provo a pensare come uscirne. Non è semplice, tutt’altro. Avverto con precisione, però, che se il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti dovesse andare in porto saremmo di fronte ad una di quelle svolte epocali, di quei passaggi storici fondamentali, in cui le mura della stanza avanzano più veloci.

Il TTIP è un accordo nel suo impianto strutturale somigliante all’accordo trilaterale stipulato nel 1994 tra Canada, Stati Uniti e Messico (il NAFTA, l’accordo di libero scambio nordamericano). È un accordo nei suoi principi ispiratori lassista e classista nel medesimo tempo; d’altronde “nessun accordo bilaterale con qualsiasi paese industrializzato ha mai generato un aumento degli investimenti americani”2. Lo stesso NAFTA, “secondo uno studio dell’Economy Policy Institute sui primi 12 anni di concordato, ha provocato una perdita netta di oltre un milione di posti di lavoro e un notevole calo del potere d’acquisto dei salari per milioni di lavoratori”3.

Questa la realtà, verosimilmente anche per ciò che riguarda l’accordo in questione, al di là degli elogi che sentiremo propinarci dai media irregimentati di turno circa le magnifiche e progressive sorti che il TTIP potrebbe schiudere per milioni di donne e uomini europei e statunitensi.

Il trattato è strutturato lungo tre linee direttrici: 1) deregolamentare, cioè adeguare al ribasso i mercati statunitense ed europeo, mantenendo come standard sociali, ambientali, di diritto del lavoro quelli che garantiscono alle imprese transnazionali vincoli il meno stringenti possibile; 2) liberalizzare, cioè aprire alle imprese transnazionali private il mercato di servizi ancora prerogativa (almeno in parte) del pubblico: sanità, istruzione, acqua, ad esempio; 3) minacciare, cioè consentire, tramite la disposizione ISDS (Investor-State Dispute Settlement), alle imprese transnazionali di citare in giudizio gli stessi stati nazionali, qualora questi ultimi adottassero una legislazione che potrebbe nuocere al profitto delle imprese medesime.

Vediamo più nel dettaglio, brevemente, alcune conseguenze dell’accordo a partire dai tre punti sopra evidenziati.

1) Gli Stati Uniti adottano una legislazione molto più lassista dell’Unione Europea per quel che concerne l’utilizzo di OGM, pesticidi, ormoni per la crescita degli animali, etc. Basti pensare che “circa il 70% di tutti gli alimenti trasformati venduti nei supermercati statunitensi contengono attualmente ingredienti geneticamente modificati. Per contro, a causa di una notevole resistenza popolare, praticamente nessun prodotto alimentare GM viene venduto nei supermercati europei …”4. Se il TTIP dovesse divenire realtà, anche in Europa sarebbe consentito l’uso e la commercializzazione di OGM. Lo stesso ragionamento valga per il tema del lavoro e dei diritti sindacali dei lavoratori, molto meno tutelati negli Stati Uniti che in Europa; sia ribadito, per di più e a tal proposito, che in genere gli accordi di libero scambio determinano una perdita netta di posti di lavoro. Gli States, inoltre, adottano una legislazione molto più tollerante pure per quel che concerne la possibilità da parte delle industrie di disperdere sostanze chimiche nell’ambiente, senza contare che, ad accordo siglato, aumenterebbe a dismisura la produzione, il consumo e il traffico di merci. Inoltre, “il TTIP aprirebbe le porte a esportazioni in massa di gas scisto americano verso l’Europa. Ciò porterebbe ad un aumento delle estrazioni per fratturazione idraulica (fracking) negli Stati Uniti e, allo stesso tempo, consentirebbe alle compagnie statunitensi di sfidare i divieti di fracking in Europa …”5. Dal canto suo, la commissione europea tramite il TTIP starebbe cercando di indebolire le regolamentazioni dei mercati finanziari introdotte dal governo Obama a seguito della crisi del 2008. Insomma: si svendono diritti in cambio di una maggiore libertà di speculare finanziariamente.

2) Le liberalizzazioni previste dall’accordo consentiranno alle imprese transnazionali private di avere accesso al mercato di servizi pubblici come sanità, istruzione, fornitura idrica. Quest’ultimo punto in particolare rappresenta un attacco frontale e diretto ai percorsi intrapresi da molteplici città europee di ripubblicizzazione dei servizi idrici integrati ed un misconoscimento offensivo e violento nei confronti della volontà popolare espressa, ad esempio in Italia, nei referendum del 12 e 13 Giugno del 2011. Inoltre, “la commissione europea e il governo americano intendono entrambi servirsi del TTIP per aprire gli appalti pubblici al settore privato. Ciò significa che non saranno più consentite le svariate politiche d’appalto di governi locali a sostegno di importanti obiettivi sociali e ambientali”6.

3) La terza novità che il TTIP introdurrebbe è l’aspetto più radicale del trattato, che al contempo ne palesa il volto vero e profondo. Si sta parlando della disposizione ISDS (Investor-State Dispute Settlement), una disposizione per la risoluzione delle controversie tra Stato e imprenditori. In pratica, “verrebbe concesso alle imprese americane ed europee il potere di impugnare le decisioni democratiche prese da governi sovrani, e di chiedere risarcimenti nei casi in cui quelle decisioni abbiano effetti negativi sui propri profitti”7. La ISDS è stata adottata in diversi trattati d’investimento bilaterali o in altri accordi bilaterali. Negli ultimi dieci anni, il ricorso a tale strumento è aumentato esponenzialmente, fatto questo che dovrebbe destare preoccupazioni non superficiali. Un caso su tutti può essere citato, per comprendere di cosa si tratta: “il gigante americano del tabacco Philip Morris sta facendo causa per migliaia di miliardi di dollari al governo australiano per via della sua politica di sanità pubblica che impone la vendita di sigarette solo in pacchetti senza scritte. La Philip Morris ha citato in giudizio anche l’Uruguay a causa delle misure da questo adottate nella lotta contro il fumo. Queste impongono che le avvertenze per la salute coprano l’80% di tutti gli imballaggi per sigarette”8.

In definitiva, per concludere e racchiudere in poche parole il senso e la portata di tale trattato (del quale, peraltro, si discute in segretissime stanze) si può esplicitare quanto segue: “per la precisione, il TTIP dev’essere inteso non come una negoziazione tra due partner commerciali concorrenti tra loro, bensì come un attacco alle società europea e statunitense, sferzato dalle società transnazionali desiderose di abbattere le barriere normative che ostacolano le loro attività da un lato e dall’altro dell’Atlantico”9.

Un attacco alle democrazie e alle costituzioni europee (che nel Maggio del 2013 JP Morgan definiva “troppo antifasciste”10), peraltro già abbondantemente attraversate da un deficit di rappresentatività; un attacco ulteriore e decisivo, dentro l’ inarrestabile spirale della crisi, alle vite, al lavoro, alla dignità di milioni di donne e uomini statunitensi ed europei.

1Holloway J., Crack Capitalism. DeriveAPPRODI, Maggio 2012, p.14

2Hilary J., Il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti. Rosa Luxemburg Stiftung, Marzo 2014 (il documento è scaricabile da http://rosalux-europa.info/userfiles/file/TTIP_IT1.pdf)

3Ibi p.16

4Ibi p.19

5Ibi p.23

6Ibi p.27

7Ibi p.30

8Ibi p.31-32

9Ibi p.8

10Si veda, tra gli altri: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/19/ricetta-jp-morgan-per-uneuropa-integrata-liberarsi-delle-costituzioni-antifasciste/630787/

Il grido di Gaza arriva a Termoli: Non c’è Pace senza Giustizia

Bello e partecipato l’incontro del 20 Agosto in Piazza Duomo a Termoli “Un ponte verso Gaza”, serata di informazione e solidarietà, promossa da R.a.p. Molise e dalla Rete di solidarietà con la Palestina e Pace nel Mediterraneo Abruzzo/Molise. Ospiti di livello e contenuti forti, che hanno catturato l’attenzione del pubblico e della piazza (compresi i clienti dei vicini bar).

Gli organizzatori hanno sottolineato l’urgenza e la necessità di proporre alla cittadinanza questo momento di informazione e riflessione: i massacri che sono avvenuti in queste settimane e che stanno ancora avvenendo a Gaza (oltre 2000 morti, quasi tutti civili, di cui 400 bambini, migliaia di feriti, orfani, sfollati) hanno scioccato molti, “ma la disinformazione e l’assuefazione alle tragedie che siamo abituati a vedere in televisione ci fanno spesso dimenticare di essere parte in causa nella storia, e quindi di poter giocare un ruolo, nel nostro piccolo, anche da qui, dal Molise” sottolineano. Non un semplice schierarsi con una o con l’altra delle parti in causa, né mantenere equidistanza tra le due: “in ogni momento storico”, spiegano i promotori “quando c’è un’ingiustizia bisogna informarsi, capire, e riconoscere chi sono gli oppressi e chi sono gli oppressori. Di fronte ad un’ingiustizia rimanere in silenzio significa diventare complici”. “La situazione attuale in Israele e Palestina” è la premessa “non nasce negli ultimi giorni, non nasce dai razzi di Hamas, né dal rapimento dei tre giovani israeliani. La sua origine risale all’occupazione e alla pulizia etnica che vanno avanti da oltre sessant’anni”.

un ponte verso gaza

La serata si è aperta con una telefonata direttamente dai Territori Palestinesi Occupati: il dottor Mustafa Barghouti, medico, parlamentare e leader popolare sostenitore della lotta nonviolenta, ha raccontato della catastrofica situazione umanitaria che ha visto a Gaza durante il suo recente viaggio. I bombardamenti hanno distrutto la centrale elettrica, i depuratori dell’acqua, le case e le infrastrutture civili più importanti. “Quella in corso” ha detto con forza il dottor Barghouti non è una guerra contro Hamas, ma contro tutta la società palestinese”. “Tutto ciò che i palestinesi chiedono” ha continuato nel suo intervento “è la fine dell’occupazione ed il ritorno ad una vita normale”.

È seguito poi un intervento del dottor Hussein Jaber, presidente della Comunità Palestinese Abruzzo e Molise, che ha ricostruito gli ultimi venti anni di storia del conflitto israelo-palestinese: venti anni in cui, nonostante continue trattative e negoziati, l’occupazione illegale dei territori da parte di Israele è continuata impunemente, rendendo inattuabile ogni possibilità di autodeterminazione per il popolo palestinese.

Molto forti anche le parole di don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi Italia, da poco tornato da una missione nella Cisgiordania occupata. “Provate a immaginare” ha detto don Renato “di ricevere un SMS in cui l’esercito vi dice che tra un minuto dovete abbandonare la vostra casa perché sarà bombardata: è quello che è successo a migliaia di abitanti a Gaza, una minuscola striscia di terra [360 kmq, più piccola del Molise] abitata da 1 milione e 800mila persone. Ed è quello che è successo anche al parroco di Gaza che insieme ad alcune suore gestisce un centro per bambini disabili”. “Ascoltare il grido di Gaza, dargli voce, è questo che ci chiedono i palestinesi ogni volta, questo è il modo più immediato per agire” ha continuato don Renato.

Toccante la telefonata con Meri Calvelli, cooperante italiana da poco rientrata in Italia dopo aver vissuto a Gaza le tremende settimane dell’offensiva israeliana. Racconta di una terra e di un popolo stremati. “I palestinesi chiedono la fine dell’assedio: ancora oggi le frontiere di Gaza sono tutte chiuse, niente o nessuno può entrare o uscire. Le necessità più imminenti sono il bisogno di cure mediche, farmaci, cibo, acqua pulita ed elettricità, senza i quali è impossibile ristabilire una vita normale”. Alla domanda ‘Che cosa possiamo fare da qui per la popolazione di Gaza sotto assedio?’ Meri risponde “fare pressione, in tutti i modi, perché i governi italiano ed europei impongano ad Israele la fine degli attacchi armati, dell’assedio e dell’isolamento economico”.

Gaza e le tante enclave palestinesi in Cisgiordania sono prigioni a cielo aperto: è quanto emerge anche dall’intervento di Francesca Ciarallo, originaria di Termoli, della comunità Giovanni XXIII e con diverse passate esperienze in contesti di guerra con l’Operazione Colomba. Da lei una toccante testimonianza dell’esperienza vissuta direttamente sul posto, dove insieme ad alcune organizzazioni israeliane e internazionali i palestinesi resistono quotidianamente e in modo nonviolento ai soprusi dell’occupante. È il caso ad esempio delle demolizioni arbitrarie di case: “Quando bisogna costruire una colonia o una ‘strada per soli ebrei’ l’esercito israeliano dà al massimo due giorni di preavviso (ma spesso l’ordine di demolizione è immediatamente esecutivo), poi si presenta con i bulldozer. Tentare di fare opposizione presso un tribunale israeliano è quasi impossibile, perché un palestinese dei Territori non può andare liberamente a Gerusalemme: è qui che giocano un ruolo le organizzazioni internazionali come l’Operazione Colomba e i pochi ma tenaci gruppi israeliani contro l’occupazione, come i Rabbini per i Diritti Umani”. “Mentre ero lì” ha raccontato Francesca Ciarallo “ad una donna palestinese era stata abbattuta la casa. Lei montò una tenda là dove una volta era stata la sua casa. I soldati buttarono giù quella tenda, ma lei ne piantò subito un’altra. Quella donna mi ha insegnato il vero significato della parola Resistenza”.

Insomma, una serata densa e piena di spunti, che si chiude con un invito degli organizzatori: “Vorremmo che questa serata fosse l’inizio di un percorso comune di solidarietà da portare avanti anche con azioni concrete. Una di queste è il boicottaggio di multinazionali israeliane o che sostengono l’occupazione. Recentemente questa campagna di boicottaggio è stata appoggiata anche dall’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, che ha paragonato la situazione in Palestina e Israele all’apartheid sudafricano. Come la discriminazione dei neri del Sudafrica anche l’oppressione del popolo palestinese può essere fermata con una forte pressione internazionale e con mezzi assolutamente nonviolenti”. Tenere gli occhi e le orecchie aperti, ascoltare il grido delle vittime, che non è solo un lamento, ma è un grido che chiede giustizia, pace e dignità, questo l’appello finale.

Nel corso della serata sono state raccolte anche sottoscrizioni a favore della Palestinian Medical Relief Society una delle più grandi e rispettabili organizzazioni umanitarie che si occupa dell’assistenza medica nei territori palestinesi.

Per avere informazioni e partecipare in Molise contattare: tel. 3202355339. Su facebook: Rap Molise, Pax Christi Molise, Collettivo i mazzemarille, Rete di solidarietà con la Palestina e Pace nel Mediterraneo Abruzzo/Molise. email: imazzemarille@insicuri.org.

UN PONTE PER… GAZA – 20 Agosto a Termoli Serata di informazione, dialogo e solidarietà

2000 morti, 8000 feriti, quasi tutti civili. Distrutte 10.000 case, colpiti 12 ospedali, 140 scuole: cosa sta succedendo a Gaza e in Palestina? E perché?

 

Termoli – Piazza Duomo

20 Agosto ore 21.00

gaza somos todos


Ne parliamo con:

don Renato Sacco (coordinatore nazionale Pax Christi Italia)

Francesca Ciarallo (Operazione Colomba – Comunità Giovanni XXIII)

Hussein Jaber (Comunità Palestinese Abruzzo e Molise)

e in collegamento telefonico:

Meri Calvelli (cooperante italiana a Gaza)

Mustafa Barghouti (medico e parlamentare, fondatore dell’Iniziativa Nazionale Palestinese)

Durante la serata saranno raccolte donazioni a favore della Palestinian Medical Relief Society, organizzazione non governativa impegnata nell’assistenza sanitaria della popolazione palestinese.

“Il silenzio di fronte all’ingiustizia è complicità con l’oppressore”

Rete di solidarietà con la Palestina e pace nel Mediterraeo Abruzzo/Molise
Rap Molise (rete per l’autorganizzazione popolare)