È ipocrita dire che siamo ‘semplicemente per la pace’, e che non bisogna schierarsi. Cercare la giustizia richiede che le cose si chiamino con il loro nome, e cioè riconoscere che esistono ‘oppressi’ e ‘oppressori’, ed un regime che è giusto definire di apartheid
da l’anguilla – giornalino dalle resistenze molisane, numero di luglio
La recente uccisione di tre giovani coloni israeliani da parte di mani tuttora ignote ha dato origine ad una offensiva generalizzata nei confronti del popolo palestinese da parte di mani che invece ignote non sono affatto. L’esercito israeliano ha scatenato prima rappresaglie continue in Cisgiordania, e adesso una vera e propria offensiva militare contro la striscia di Gaza. Da allora centinaia di palestinesi, per lo più giovani (molti minorenni) sono stati arrestati, senza un processo o un mandato del giudice. In continuo aumento è anche la conta dei morti, soprattutto a Gaza, una delle zone più densamente popolate al mondo, dove i ‘bombardamenti intelligenti’ di Israele hanno già fatto decine di vittime civili e centinaia di feriti. Nessun israeliano è morto finora a causa dei razzi palestinesi lanciati da Gaza. Le televisioni continuano a parlarci di una ‘guerra’ tra due popoli. Ma la parola è fuorviante: ci fa pensare a due eserciti, che si combattono ad armi più o meno pari, e in cui soprattutto ognuno ha la sua parte di colpa nel perpetrare l’orrore. “Questa, infatti, non è una guerra”, scriveva Vittorio Arrigoni nel gennaio 2009 durante un’altro terribile attacco a Gaza, “perché non ci sono due eserciti che si danno battaglia su un fronte: è un assedio unilaterale condotto da forze armate (aviazione, marina ed esercito) fra le più potenti del mondo […] che hanno attaccato una misera striscia di terra di 360 kmq, dove la popolazione si muove ancora sui muli e dove c’è una resistenza male armata la cui unica forza è quella di essere pronta al martirio”. Nella storia chi è per la giustizia deve schierarsi con chiarezza. Non basta dire “Io sono per la pace”. Mai ci verrebbe in mente oggi di dire che anche il regime bianco dell’apartheid in Sudafrica aveva le sue ragioni. “Doveva difendersi dai terroristi neri”. Eppure è proprio quello che ci ritroviamo ad ascoltare ogni volta che sentiamo parlare di Palestina e Israele. Ammesso che sia stato Hamas a commettere il rapimento e l’omicidio dei tre giovani (ed è lecito dubitarne), quello che si sta verificando in questi giorni è una punizione collettiva a danno di un intero popolo, animata dalla convinzione che per risolvere il problema della convivenza tra i due popoli bisogna annientare i palestinesi nello spirito, e ridurli a subire passivamente l’occupazione. Con questo non si vuole assolutamente giustificare nessun atto di violenza da parte palestinese, né si vuol dire che tutti gli Israeliani sono complici del governo (per fortuna, sono pochi, ma ci sono). C’è però da riconoscere, e da dire con forza, che in uno scenario come quello israelo-palestinese esiste un oppresso ed esiste un oppressore. L’oppressore è chi che con uno degli eserciti più potenti al mondo, controlla militarmente da decenni le terre di un altro popolo, contro il diritto internazionale e ripetute risoluzioni del consiglio di sicurezza dell’ONU. La vita dei palestinesi dipende interamente dallo stato israeliano: milioni di palestinesi non possono spostarsi da un villaggio all’altro, andare in ospedale, costruire case, ricevere un passaporto, importare cibo, irrigare i campi, senza che Israele lo voglia. Se sei palestinese puoi essere arrestato e detenuto a tempo indeterminato, senza accuse e senza processo, puoi vedere la tua casa distrutta senza il potere di fermare i bulldozer, puoi vedere tua moglie morire di parto ad un checkpoint per il capriccio dei soldati, ti è vietato usare alcune strade per ‘soli ebrei’, non puoi andare in Israele senza un permesso difficilissimo da ottenere, non puoi andare in Cisgiorgania se sei di Gaza, e viceversa. Da quando Israele esiste milioni di palestinesi sono stati espulsi dalle loro case e dalle loro terre. Oggi la metà di loro vive all’estero, e un’altra metà circa è segregata in 167 enclave in Cisgiordania, più Gaza, prigione a cielo aperto dal 2007, da cui è quasi impossibile entrare o uscire. Tutto ciò è giustificato come necessario per la sicurezza e la sopravvivenza di Israele, ma è solo la difesa di un vero e proprio progetto coloniale. Israele vuole essere uno stato ebraico, nei confini della Palestina storica, e per questo deve ridurre al minimo il numero e l’autonomia dei palestinesi. Perciò faremmo meglio a chiamarlo apartheid, cioè la discriminazione sistematica di un popolo che vive sotto il dominio di un altro popolo. E questo non lo dicono pochi estremisti. La parola ‘apartheid’ è ormai usata da molti, israeliani compresi. Il paragone è stato fatto anche da Desmond Tutu, arcivescovo sudafricano, che ha paragonato le umiliazioni sistematiche subite dai palestinesi a quelle dei neri durante l’apartheid. Combatterlo è possibile, come è stato possibile combattere e sconfiggere l’apartheid Sudafricano, con le armi nonviolente della protesta, della solidarietà, delle campagne di boicottaggio, che già stanno dando risultati negli ultimi anni.
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